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L’isola gentile


13-pelagalliIn un mare lontano viveva un faro malato di solitudine ma a quella tempesta amara che lo stregava non voleva fare l’abitudine, sapeva che ogni attimo serve per immergersi in altre vite perché una vita isolata non è felice e una notte con i piedi inchiodati allo scoglio seminò intorno ogni raggio che usciva dalla torre di specchi e come un diamante dal cuore buono vinse la burrasca dalla voce di tuono.
 Il gigante dal respiro sottile fora i chilometri con frecce che illuminano chi è solo. Lui impara le cose del mondo lontano e chi soffre si stupisce di un fratello invisibile che lo sfiora e dà una mano. Un naufrago in lotta con la punta dell’onda perché sotto la schiuma non soccomba, dei pescatori perduti tra i flutti, la marea può spazzarli via tutti, all’improvviso sentono un calore che ridà forza ai sogni e accende una nuova possibilità, un barcone al largo abbandonato al freddo della sera oscilla e dentro la speranza si assottiglia, ma sui corpi abbracciati che rabbrividiscono piove una luce bianca che comprende quella disperazione e li rinfranca.
 L’occhio preciso insiste, si accosta alla riva dove l’acqua finisce, fruga nelle pieghe di una città, in una stanza, attratto da un groviglio di suoni esagerati, appena in tempo per fermare una mano prepotente che si arresta a mezz’aria vergognosa davanti a quella pubblicità luminosa. Come un faro da teatro scruta le strade… in un vicolo che sembra un fiordo due giovani ombre si muovono, hanno in testa una trama, un misterioso accordo e anche se il cuore trema ormai è deciso,quando irrompe una scia che almeno a uno dei due ricorda una carezza che riannoda il passato di una vita strappata come un maglione bucato, ma quel bagliore insistente gli dimostra che la felicità è ancora nel presente… e la certezza del male svanisce, il ragazzo torna bambino, la scena è cambiata.
 Il faro si incuriosisce e con dita da pianista impegnato in un assolo spericolato si insinua fra le ombre di un parco, non ha mai visto gli alberi. Nel petto si allarga un bruciore dal sapore antico ma fresco: è l’amore. Una quercia lo guarda, nel parco è la più alta e con la testa lo sfida a sfidarla. Il faro vorrebbe parlare con quei suoni che ha soltanto sentito ma non così aspri, li vorrebbe forgiare più dolci, come un invito, ci prova ma è inutile, però sa lampeggiare.
 “Sei bella, mi vuoi per marito? Nel milleottocentocinquanta ho visto la nave Enrico Speranza, nel legno un po’ ti assomiglia ”. Ma la luce si impiglia nell’intrico dei rami, la quercia si annoia, le piacciono solo i bisticci con le radici del tiglio vicino alle tane dei ricci. Il raggio deluso si sposta su cartelli festosi di segni che per lui sono muti perché non conosce i fermenti lattici e gli strumenti agricoli, lo shampoo e la tinta naturale, la sua moda è un vestito scrostato dal sale, uguale dalla nascita, una tuta bianca con gli oblò come bottoni sulla pancia e un cappello blu per proteggere l’anima di specchi, poi sente una fitta agli orecchi e si accorge che l’orizzonte umano è più arcano del furore dell’uragano che nella scala Beaufort si chiama forza otto: un canotto di latta con poco equipaggio rotea su un vortice tondo e scompare succhiato in un ampio sentiero, in un prato due pirati dagli occhi gialli sfoderano unghielli più acuti della mano di Giacomo Uncino e chi vince ancheggia spavaldo come un brigantino, in una camera all’ultimo piano ha scoperto un gabbiano  che strilla in un nido chiamato “culla”, lo ha toccato e quel gomitolo si è addormentato e vede senza conoscerlo l’abisso infinito in gara con l’uomo che lo vuole domare.
 Il faro si bagna di nostalgia, sente la campana della nave intrappolata nel fortunale e il marinaio senza pace nella bonaccia color petrolio che grida al cielo fatto di lame.
 “Voglio tornare tutto intero, ormai il mondo lo conosco davvero, alla mi a isola che mi somiglia a guardare l’alba di conchiglia. Voglio sentirmi cucito ai miei raggi: basta con questo amore sparpagliato, li spedirò solo nei paraggi, illuminerò un malcapitato in sella a una cresta ribelle come un cavallo imbizzarrito”.
Chiuso nel vestito bianco sembra un albatro stanco che ascolti la sterminata eternità di onde. Ha regalato arte e ricordi e come un cantante all’ultima serata ha perso gli accordi e resta smarrito sul palcoscenico, muto davanti ai fans.
Lo sprazzo vivo è una bava di lumaca che sfuma ma sulla fronte da re ha una corona di gabbiani che non si consuma. L’isola va di moda, è battezzata Gentile da una squadra di cartografi zelanti, i turisti leggono sotto la torre le imprese dei centravanti, lui non vede e non sente, sono appannate le lenti rotanti, il generatore elettrico esaurito. Gli resta il rimpianto incantato per ogni sguardo che ha sperperato, ma gli sbagli del cuore nascondono splendori e se semini al vento puoi raccogliere fiori.
Il traghetto parte ma i bambini scappano ancora sul pontile, staccano un pezzo di muro e a casa lo difendono se le mamme si ostinano a ordinare il comodino. Quando dormono, quel sasso al fianco canta con voce umana…
…In un mare lontano viveva un faro malato di solitudine
ma a quella tempesta amara che lo stregava non voleva fare l’abitudine
sapeva che ogni attimo serve per immergersi in altre vite
perché una vita isolata non è felice…
Cristina Pelagalli

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