Omar e il faro della speranza
Nel cuore del Mediterraneo esiste un’isola magica, che tutti chiamano Lampe.
La conoscono in molti, ma in pochi l’hanno vista; non è nemmeno segnata sulle carte geografiche poiché sembra che da qualche tempo abbia il potere di muoversi, spostandosi come una grande nave tra le onde del mare turchino.
Un tempo, quando era un’isola come tutte le altre, fu un’importante meta di commerci, ed il suo porto brulicava di persone che compravano e vendevano mercanzie di ogni tipo. Il grande faro di pietra bianca, che vegliava sull’isola come una stella, segnava le rotte dei naviganti e li proteggeva dai tranelli del mare in tempesta.
Poi tutto cambiò, quando gli uomini iniziarono a usare navi di ferro e le rotte commerciali mutarono: così, l’isola fu dimenticata, ed anche i suoi abitanti dimenticarono quanto fosse bello incontrare gli altri e conoscere usi di popoli lontani.
“Che importa, bastiamo a noi stessi!” – continuavano a dire, poiché in fondo erano in grado di tirare avanti da soli, nutrendosi di pesci e dei frutti della terra.
Ma poiché nessuno veniva più sull’isola, pian piano essa smise di essere accogliente: gli approdi del porticciolo furono trascinati via dal mare, le pietre che lastricavano le strade si sfaldarono, il grande faro smise di funzionare. “Non c’è bisogno di accenderlo, nessuno viene qui!” – dicevano. “E poi, è pericoloso: guidati dalla sua luce potrebbero trovarci i predoni e derubarci!”. Così, nuovi pensieri di paura si erano fatti strada nelle loro parole, senza che nemmeno ci facessero caso.
Nonostante fosse spento, però, il faro continuava ad avere una sua vita, poiché esso era anche una casa abitata da un’intera famiglia; i suoi quattro “ospiti” erano papà Giuseppe, mamma Rita, il giovane Omar e la piccola Emma. Da che vi fosse memoria, tutti gli antenati di Giuseppe erano stati guardiani del faro e da sempre avevano vissuto in quella casa stretta e alta come il collo di una giraffa, che si affacciava su una striscia di sabbia ed un’immensa distesa azzurra.
Nei giorni di tempesta, la voce del mare era così forte da coprire qualsiasi suono: così, per comunicare in quei momenti, gli abitanti della casa-faro avevano creato un linguaggio dei segni che Omar ed Emma trovavano molto divertente. Mamma Rita era diventata talmente brava da riuscire a raccontare le favole mimandole per intero, senza bisogno di parole!
Tuttavia, da quando gli isolani avevano deciso che il faro fosse ormai inutile, papà Giuseppe era diventato malinconico e solitario. Così Omar, mentre spegneva le candeline del suo decimo compleanno, espresse il desiderio più grande che aveva in fondo al cuore: “Per tutti i fuochi dell’universo, la luce del faro deve accendersi di nuovo!”.
Da quel giorno, in gran segreto, si mise a raccogliere legna a più non posso e a nasconderla in una piccola grotta, appena dietro casa. Iniziare fu facile, ma con il passare delle settimane cominciò a sentire il peso della solitudine e della fatica, al punto quasi di arrendersi.
Fu allora che accadde qualcosa di straordinario.
Proprio mentre Omar camminava pensieroso sulla spiaggia, la corrente portò ai suoi piedi una tavoletta di legno e lui la raccolse incuriosito. Guardandola rimase a bocca aperta: al centro della tavoletta qualcuno aveva inciso, raffigurandola in ogni particolare, una grande barca, e su quella barca tante persone con le braccia alzate.
Sembrava quasi che potessero muoversi!
“Dev’essere un messaggio del mare!” – pensò Omar. “Forse qualcuno ha bisogno di noi!”.
E pieno di emozione corse da suo padre per mostrargli ciò che aveva trovato.
Ma Giuseppe rispose distrattamente: “Sarà un giocattolo caduto in acqua, non farci caso Omar” – e continuò a zappare la terra dell’orto. Così non ne parlarono più.
I giorni passarono, tutti uguali, finché l’inverno, ormai alle porte, non si fece sentire con una lunga giornata di pioggia ed il mare in tempesta. Allora, quando il sole stava ormai per tramontare, Giuseppe intravide dalla sommità del faro un barcone di legno, simile a quello della tavoletta di Omar, pieno di migranti che sventolavano le braccia alzate.
Suo figlio aveva ragione! Che stupido era stato! Bisognava assolutamente accendere la luce del faro, altrimenti avrebbero perso la possibilità di approdare o si sarebbero schiantati sulla scogliera. Ma ora, come fare? La pioggia aveva bagnato tutta la legna e raccoglierla tra le case avrebbe richiesto molto tempo.
Mentre era tormentato da questi pensieri, Giuseppe sentì la mano di Omar che prendeva la sua: “Vieni con me papà, ho da mostrarti una cosa” – disse. E il padre si fece guidare umilmente dal giovane figlio fino a quando, entrato nella grotta riparata dagli alberi, vide una catasta di legna adagiata in perfetto ordine, per accendere il fuoco del faro. In tutte quelle settimane Omar aveva continuato a raccogliere il suo piccolo tesoro, senza mai fermarsi!
In un battibaleno Giuseppe portò decine di ceppi in cima al faro usando una vecchia carrucola e finalmente, mentre gli ultimi raggi del sole si facevano breccia tra le nubi, padre e figlio riuscirono ad accendere il fuoco. Com’era bello e incoraggiante!
Non lo pensarono solo i migranti che viaggiavano stretti stretti sul barcone, ma anche gli isolani, che vedendo quella luce così forte e maestosa accorsero fino al porto. Allora, in un solo istante, si ricordarono del tempo in cui la loro isola era un luogo bello ed accogliente, e lasciarono che il fuoco del faro riscaldasse i loro cuori.
“Che egoisti siamo stati!” – pensarono. E capirono che chi accende una luce per illuminare il cammino degli altri, senza accorgersene illumina anche la propria strada.
Così accolsero la barca che arrivava, piena di persone, e donne gravide, e bambini.
Non aspettarono neanche che ormeggiasse, ma in molti andarono incontro ai migranti, camminando tra le acque con i vestiti ancora addosso, per aiutarli a scendere. Poi, dopo tutto quel trambusto, gli isolani e i nuovi arrivati sedettero in cerchio, e bevvero e mangiarono insieme.
Ad Omar sembrò che si somigliassero molto, anche se parlavano lingue diverse e gli ospiti avevano la pelle un po’ più scura. Una in particolare era proprio identica alla zia Rosalia, sembrava sua sorella! E lui non riusciva proprio a smettere di guardarla.
Le tavolette di legno incise da Kamel, proprio come quella che il mare aveva portato ad Omar, furono utilissime per comunicare, e il giovane guardiano del faro capì subito di aver trovato un nuovo amico. Anche la lingua dei segni parlata dalla sua famiglia diede modo a tutti di raccontare tantissime storie! Poi, a notte fonda, ogni isolano accolse un migrante nella propria casa ed ognuno accese una fiaccola, il suo piccolo faro fuori dalla porta d’ingresso.
La strada brillò di una immensa luminaria.
E mentre tutti dormivano felici, non si accorsero che l’isola non era più un’isola, ma una grande nave che attraversava il mare, per andare ovunque desiderassero.
Giuseppina Norcia